MARKER DI INFIAMMAZIONE QUALI INDICATORI DEL RISCHIO DI CAD
 
     
 

Sebbene nuove e più recenti ricerche, condotte per valutare il ruolo dell'infiammazione nella patogenesi dell'aterosclerosi, abbiano notevolmente ampliato le conoscenze sulla malattia coronarica (CAD), questi risultati non dovrebbero distogliere il medico dal focalizzarsi su interventi che si sono inequivocabilmente dimostrati efficaci nella cura delle CAD.
Questa affermazione è stata fatta da Vorchheimer e Fuster nell'editoriale su JAMA ("Inflammatory markers in coronary artery disease. Let Prevention Douse the Flames" JAMA, 2001; 286:2154-56) che accompagnava la pubblicazione sulla stessa rivista di due nuovi studi riguardanti le basi infiammatorie dell'aterotrombosi.
Il primo lavoro riguarda la determinazione dei livelli di interleuchina-6 (IL-6) nei pazienti arruolati nell'ambito dello studio FRISC-II (Fragmin and Fast Revascularisation During Instability in Coronary Artery Disease II) e mostra come questa citochina sia un forte indicatore indipendente di aumentata mortalità nella CAD instabile [1].
Il secondo lavoro descrive una correlazione diretta tra i livelli dell'enzima mieloperossidasi (MPO), secreto dalle cellule bianche ematiche, e lo stato di CAD documentato all'angiografia [2].
Vorchheimer e Fuster sostengono che, malgrado queste osservazioni siano interessanti, rimangono da risolvere tre principali questioni, prima di comprendere la valutazione dell'infiammazione nella diagnostica routinaria dei pazienti con CAD.

1. "Le determinazioni dell'infiammazione identificano pazienti a rischio e tali valutazioni predicono il rischio indipendentemente, oltre gli strumenti convenzionalmente usati per la stratificazione dello stesso?"
Queste misurazioni possono aumentare la capacità di identificare gruppi di pazienti ad alto rischio, particolarmente in prevenzione primaria. Tuttavia questo approccio deve ancora essere validato in un trial prospettico. Inoltre non è chiaro se un marker di infiammazione è superiore ad un altro (es. PCR, IL-6, siero-amiloide A, ecc.) e se lo stesso indicatore di infiammazione possa essere utilizzato per predire il rischio sia nella fase acuta sia in quella cronica delle malattie coronariche.

2. "Esistono terapie specifiche per ridurre i livelli serici dei marker dell'infiammazione?"
Dati pubblicati di recente su JAMA 2001;286:64-70, relativi allo studio PRINCE, hanno confermato evidenze precedenti sulla capacità delle statine di ridurre i livelli di PCR. Tuttavia questa riduzione, in termini assoluti, è modesta (-0,02 mg/dL). Le implicazioni cliniche di queste modificazioni sono ignote e necessitano di ulteriori studi prospettici supportati da disegni sperimentali rigorosi. Ad esempio, sebbene l'aspirina sia indiscutibilmente efficace sia nella prevenzione primaria che secondaria degli eventi in pazienti con malattia aterosclerotica e la terapia con questo farmaco sembra agire in modo più efficace nei soggetti con livelli di PCR all'interno del quartile più alto, è ancora argomento di discussione se la somministrazione di aspirina sia associata ad un qualsiasi effetto misurabile sui livelli di PCR.

3. "Le terapie che riducono i livelli serici dei markers di infiammazione, riducono il rischio cardiovascolare?"
Gli unici farmaci per i quali è stata dimostrata un'attività di riduzione degli indicatori di infiammazione sono le statine e forse l'aspirina. Questi principi attivi sono già prescritti alla maggior parte dei pazienti con CAD. Statine, aspirina e altre classi di farmaci, quali ACE-inibitori, beta-bloccanti e antitrombotici (fibrinolitici, inibitori della glicoproteina IIb/IIIa e clopidogrel) costituiscono le fondamenta degli attuali regimi terapeutici in pazienti con CAD acuta o cronica. Esistono numerose evidenze che documentano l'efficacia di questi interventi nel ridurre la morbidità e la mortalità tra i pazienti con CAD. Tuttavia dati osservazionali continuano a dimostrare che una parte significativa di questi pazienti a rischio non riceve alcuna indicazione terapeutica [3]. I risultati di una recente indagine sui dati del Registro Nazionale sugli Infarti Miocardici (3ª ed.) indicano che solo il 31,7% dei pazienti che sono stati ospedalizzati per IMA in USA nel periodo 1998/99 aveva ricevuto prescrizioni di farmaci ipolipemizzanti alla dimissione. Tra i pazienti a più alto rischio (storia pregressa di CAD, rivascolarizzazione, diabete) meno della metà veniva dimesso con una terapia. Questa sotto-utilizzazione di terapie efficaci porta ad un numero significativo di esiti sfavorevoli misurabili.

L'IL-6 IDENTIFICA I PAZIENTI CHE MAGGIORMENTE BENEFICERANNO DI UNA GESTIONE INVASIVA PRECOCE
Nel lavoro di Lindmark e colleghi sono stati misurati i livelli circolanti della citochina IL-6 tra 3269 pazienti arruolati nello studio FRISC.
I campioni di sangue erano stati prelevati circa 39 ore (valore mediano) dopo l'occorrenza dell'ultimo episodio di angina ed erano equamente distribuiti tra i due gruppi di soggetti randomizzati a ricevere una strategia di intervento precoce e invasivo o non invasivo. Questi ultimi erano stati ulteriormente randomizzati ad un trattamento di 90 giorni con dalteparina o placebo. In questo gruppo livelli di IL-6 >5 ng/L erano associati ad un aumento di 3,5 volte della probabilità di morte a 12 mesi (7,9% contro il 2,3% dei pazienti con livelli di IL-6 <5 ng/L; p<0,0001). Nei pazienti con elevati livelli di interleuchina la terapia invasiva precoce portava ad una riduzione relativa della mortalità a 12 mesi del 65% (5,1% di riduzione assoluta; p=0,004). Tuttavia, in relazione all'end point composito di morte e IMA, livelli elevati di IL-6 non erano associati ad un numero di eventi significativamente maggiore nel gruppo con terapia non invasiva. Questo dato è stato commentato dagli stessi autori come evidenzia che la terapia invasiva migliora gli esiti indipendentemente dai livelli di interleuchina. Nella coorte di pazienti randomizzati alla strategia non invasiva, quelli in trattamento con placebo e con livelli di IL-6 >5 ng/L avevano un'incidenza di mortalità a 6 mesi del 7,9% contro il 2,5% osservato nei pazienti con livelli inferiori al cut off (p=0,001).
In pazienti con livelli elevati di IL-6, l'assegnazione al trattamento con dalteparina tendeva a ridurre il rischio di mortalità al 4,4% (p=0,08). Nuovamente, in relazione all'end point combinato, i livelli di interleuchina non erano significativamente associati al rischio di eventi, sebbene dalteparina avesse ridotto significativamente l'incidenza di mortalità o di IMA durante i primi 60 giorni di trattamento nei pazienti con livelli elevati ma non in quelli con livelli più bassi di IL-6. Questo beneficio, tuttavia, era scomparso a 90 giorni.
Uno dei ricercatori coinvolti in questo studio ha affermato che la mancanza di predittività di alti livelli di IL-6 sull'end point composito di morte e IMA era plausibile in quanto concentrazioni elevate di citochine sono associate ad una rottura più profonda del vaso che conduceva con più probabilità ad IMA fatale. Così quando viene aggiunto all'end point l'IMA non fatale, l'associazione potrebbe essere persa. Al momento questa spiegazione è speculativa, ma è importante in quanto gli stessi autori hanno riscontrato un dato simile per la PCR e l'end point composito in uno studio successivo (FRISC II) i cui risultati sono in corso di pubblicazione.
Lo studio ha dimostrato che livelli elevati di IL-6 identificano pazienti il cui rischio di morte può essere ridotto considerevolmente con un approccio invasivo precoce che diventa di prima scelta malgrado l'aumentata attività infiammatoria in questi pazienti. Inoltre le misurazioni dei livelli di questa citochina potrebbero andare ad identificare quei soggetti che beneficerebbero maggiormente di un trattamento quale dalteparina per via sottocutanea. Questo è importante poiché non tutti i pazienti ad alto rischio sono eleggibili per una strategia invasiva, per cui può essere presa in considerazione come alternativa una terapia anticoagulante a lungo termine. I livelli circolanti di IL-6 forniscono ulteriori informazioni quando aggiunti agli altri indicatori già noti per la stratificazione del rischio nei pazienti con CAD instabile.
Malgrado ciò, Vorchheimer e Fuster affermano che è ancora prematuro raccomandare di dosare i livelli di citochina fino a quando non verranno risolti molti problemi pratici, tra cui l'uso di un sofisticato metodo di dosaggio, la conferma del valore predittivo della IL-6, dopo aggiustamento per fattori di rischio, quale l'obesità e le variazioni circadiane dei livelli dello stesso parametro.

LIVELLI DI MIELOPEROSSIDASI E RISCHIO DI CAD
Contemporaneamente Zhang e colleghi hanno concluso che con il loro studio hanno per primi tentato di correlare i livelli di MPO nei leucociti e nel sangue con lo stato di CAD documentato all'angiografia. MPO è un enzima abbondante secreto dai neutrofili attivati, dai monoliti e certi macrofagi tissutali; dati recenti suggeriscono che possa essere coinvolto nello sviluppo di CAD. In questo studio caso-controllo sono stati osservati 158 pazienti con CAD e 175 senza evidenze agiografiche significative di CAD e sono stati misurati i loro livelli di MPO leucocitaria e plasmatica. I livelli di MPO sono risultati associati alla presenza di CAD. Nei modelli multivariati, aggiustati per i fattori di rischio tradizionali, il punteggio del rischio con il Framingham e la conta leucocitaria, i livelli di MPO sono ancora associati alla presenza di CAD, con una ODDS RATIO (OR) di 11,9 (95% IC 5,5 - 25,5) per il quartile più alto verso quello più basso di MPO leucocitaria e una OR di 20,4 (8,9 - 47,2) nel caso dell'enzima plasmatico.
Sebbene questi dati debbano essere riconfermati in altre popolazioni, dimostrano che i livelli di MPO possono essere predittivi di eventi coronarici e quindi essere utilizzati per identificare soggetti con CAD, la cui diagnosi è sfuggita agli screening routinari. Sono necessari studi longitudinali per confermare il potere predittivo di questo enzima e verificare se possa rappresentare il target di un intervento terapeutico. Attualmente il metodo di dosaggio dell'enzima non è esportabile alla pratica clinica.
Gli autori dell'editoriale sostengono che l'implicazione più interessante di queste evidenze sulla MPO, un enzima importante associato ai meccanismi di difesa contro agenti esterni, è che ulteriori ricerche condotte in questa direzione potrebbero aiutare a spiegare il ruolo di alcuni agenti infettivi, quale la Chlamydia pneumoniae nella patogenesi dell'aterosclerosi.

L'OPINIONE DEL SEFAP
I cosiddetti marker di infiammazione sono divenuti molto popolari. Ricercatori, sperimentatori e clinici continuano a produrre dati ed osservazioni che indicano il loro possibile ruolo nella genesi della malattia ateromasica ed un contributo alla determinazione del rischio di incorrere in eventi vascolari. L'entusiasmo per questo nuovo settore non deve tuttavia farci dimenticare i problemi che restano da affrontare, che sono di duplice natura:
1. Metodologica: i test per la determinazione di questi parametri sono validi solo se usati all'interno del singolo laboratorio (il coefficienti inter ed intra-assay non viene specificato);
2. Clinica: tutti i dati ad oggi disponibili sono derivati da studi osservazionali e da analisi post hoc (caso-controllo). Questo tipo di approccio è necessario, ma non sufficiente, per documentare il ruolo di questi marker. Solo studi di intervento mirati potranno dimostrare se le associazioni osservate siano causali o meno.


BIBLIOGRAFIA

1. RELATIONSHIP BETWEEN INTERLEUKIN 6 AND MORTALITY IN PATIENTS WITH UNSTABLE CORONARY ARTERY DISEASE EFFECTS OF AN EARLY INVASIVE OR NONINVASIVE STRATEGY
Eva Lindmark, Erik Diderholm, Lars Wallentin, Agneta Siegbahn
JAMA 2001; 286:2107-2113

2. ASSOCIATION BETWEEN MYELOPEROXIDASE LEVELS AND RISK OF CORONARY ARTERY
Renliang Zhang, Marie-Luise Brennan, Xiaoming Fu, Ronnier J. Aviles, Gregory L. Pearce, Marc S. Penn, Eric J. Topol, Dennis L. Sprecher, Stanley L. Hazen
JAMA 2001; 286:2136-2142

3. USE OF LIPID-LOWERING MEDICATIONS AT DISCHARGE IN PATIENTS WITH ACUTE MYOCARDIAL INFARCTION
Gregg C. Fonarow, William J. French, Lori S. Parsons, Haili Sun, Judith A. Malmgren
Circulation 2001;103:38-41