LA PRESENZA CONCOMITANTE DI CLAUDICATIO INTERMITTENS E INFARTO DEL MIOCARDIO COSTITUISCE UN FORTE PREDITTORE DI EVENTI CARDIOVASCOLARI RICORRENTI

RELATIONSHIP BETWEEN INTERMITTENT CLAUDICATION, INFLAMMATION, THROMBOSIS, AND RECURRENT CARDIAC EVENTS AMONG SURVIVORS OF MYOCARDIAL INFARCTION
Narins CR, Zareba W, Moss AJ, et al.
Arch Intern Med 2004;164:440-446



RIASSUNTO
CONTESTO Nei pazienti coronaropatici la malattia arteriosa periferica concomitante rappresenta un importante fattore di rischio per eventi cardiaci futuri e per mortalità. Gli autori hanno esaminato i marker clinici e biochimici che potrebbero evidenziare meglio il rapporto tra malattia coronarica e malattia arteriosa periferica.
METODI Due mesi dopo l'insorgenza di un primo infarto miocardico, 1045 pazienti hanno fornito la loro storia medica dettagliata e sono stati sottoposti ad esami del sangue per il dosaggio di marker emostatici selezionati, lipidici e infiammatori. I pazienti sono stati seguiti per un follow-up prospettico per una media di 26 mesi.
RISULTATI Confrontati con i soggetti senza claudicatio intermittens (CI) (n=966), quelli con claudicatio (n=78) erano significativamente più anziani e dimostravano una frequenza maggiore di diabete mellito, uso di tabacco, precedenti eventi cardiaci e cerebrovascolari e ridotta funzionalità ventricolare sinistra. La somministrazione di terapie beta-bloccanti dopo l'insorgenza di infarto era meno frequente nei pazienti con CI. Negli stessi pazienti era emersa l'evidenza di maggiori stati procoagulanti e proinfiammatori, manifestati con aumenti relativi dei livelli di fibrinogeno plasmatico, D-dimero, proteina C-reattiva (PCR) e delle concentrazioni seriche della proteina amiloide A (SAA). Durante il periodo di follow-up, la presenza di CI era associata ad un aumento indipendente, pari a due volte dell'end point combinato di morte o evento cardiaco non fatale (38,5% vs 17,8%, p=0,001) e ad un aumento pari a 5 volte della mortalità cardiaca (19,2% vs 3,6%, p=0,001). I pazienti con CI che non erano in trattamento con beta-bloccanti avevano una mortalità tre volte superiore a quella dei pazienti in terapia con beta-bloccanti.
CONCLUSIONI Dopo infarto miocardico, la presenza contemporanea di CI è associata ad un aumento degli stati procoagulanti e proinfiammatori e ad un sottoutilizzo della terapia con beta-bloccanti e rappresenta un forte predittore indipendente di eventi cardiovascolari ricorrenti.

COMMENTO
L'aterosclerosi è un disturbo sistemico che tende ad influenzare diverse sedi vascolari. La presenza di una malattia arteriosa periferica alle estremità inferiori, sia sintomatica che clinicamente silente, è associata ad un rischio significativo elevato di eventi cardiaci futuri e di mortalità. Anche nei pazienti in cui la malattia arteriosa coronarica si è già manifestata clinicamente, la presenza concomitante di malattia arteriosa periferica preannuncia esiti peggiori. Rimane ancora da chiarire se la compresenza di malattia arteriosa periferica nei pazienti con malattia coronarica denoti semplicemente uno stadio più avanzato del processo della malattia o rifletta invece un cambiamento che evidenzia un nuovo processo patofisiologico. In attesa di comprendere meglio la relazione fra malattia coronarica e malattia arteriosa periferica, questo studio ha esaminato le differenze tra variabili cliniche, terapie mediche, livelli di fattori trombogenici diversi, lipidici ed infiammatori e prognosi all'interno di un'ampia coorte di pazienti postinfartuati con o senza CI.
In un ampio gruppo di soggetti sopravvissuti ad un infarto miocardico recente, la presenza di CI è associata significativamente ad un aumento di stati trombotici ed infiammatori, evidenziati da livelli aumentati di fibrinogeno, D-dimero, PCR e proteina SAA. In accordo con studi precedenti, è stata evidenziata in questa coorte una forte relazione indipendente tra la presenza di claudicatio intermittente e il rischio di successivi eventi cardiaci avversi maggiori. Rispetto ai pazienti senza CI, quelli con CI erano significativamente più anziani, più frequentemente affetti da diabete mellito e più spesso avevano una storia di eventi cardiovascolari precedenti, disfunzione ventricolare sinistra grave ed edema polmonare e di abitudine al fumo. Anche dopo aggiustamento per questi fattori, la CI rimaneva un predittore forte di eventi cardiaci, compresa la morte per evento cardiaco e nuovo infarto non fatale.
Nei pazienti post-infartuati i livelli elevati di D-dimero insieme a livelli elevati di apolipoproteina B e a livelli più bassi di apolipoproteina A erano predittori indipendenti di eventi cardiaci primari, dopo aggiustamento per i predittori clinici di eventi avversi.
Stranamente, mentre fibrinogeno e PCR erano predittivi di eventi cardiaci primari futuri in un modello univariato, questi fattori non emergevano come predittori indipendenti di eventi cardiaci primari in un modello multivariato che comprendeva altri predittori clinici di eventi avversi, compresa la presenza di CI. Questa rimaneva associata indipendentemente ad eventi cardiaci avversi dopo aggiustamento per livelli elevati di D-dimero, apolipoproteina B e livelli più bassi di apolipoproteina A.
Trials clinici randomizzati hanno dimostrato che una terapia con farmaci beta-bloccanti in seguito ad infarto miocardico è associata a riduzioni significative della mortalità precoce e tardiva. In questo studio di popolazione, solamente la metà circa dei sopravvissuti ad infarto miocardico con malattia arteriosa periferica sintomatica assumeva una terapia con beta-bloccanti due mesi dopo l'evento, una proporzione significativamente minore rispetto a quella osservata fra i pazienti senza CI. I motivi di questo utilizzo più limitato della terapia con beta-bloccanti nei pazienti postinfartuati con CI sono probabilmente multifattoriali. Per il timore che gli agenti beta-bloccanti possano ulteriormente ridurre il flusso sanguigno nelle arterie periferiche ammalate, la presenza di claudicatio è stata vista come una controindicazione relativa a questa forma di terapia.
Molti studi recenti, tuttavia, suggeriscono che i beta-bloccanti non riducono la perfusione periferica o influenzano in modo negativo la capacità di deambulazione nei pazienti con CI; essi sono, infatti, ben tollerati da questi soggetti. Considerate le implicazioni prognostiche avverse della malattia arteriosa periferica dopo infarto miocardico, unitamente ai noti benefici sulla qualità della vita derivanti dalla terapia con beta-bloccanti, i soggetti con malattia arteriosa periferica potrebbero ottenere un beneficio in particolare da questa terapia. Fra i pazienti postinfartuati con CI, in quelli trattati con terapia beta-bloccante si è osservata una riduzione pari a 3 volte della mortalità cardiaca complessiva, confrontati con i pazienti non trattati con la stessa terapia.
Oltre ad indicare la necessità di un utilizzo più appropriato della terapia beta-bloccante in questo gruppo ad alto rischio, questi risultati sottolineano l'importanza di valutare se le terapie specifiche per trombosi (come clopidogrel bisolfato) o stato infiammatorio possono svolgere un ruolo particolare in questi pazienti.