SELEZIONE DELLA LETTERATURA



DISPARITÀ SOCIO-ECONOMICHE NELLA SALUTE IN 22 STATI EUROPEI
Le ineguaglianze nei servizi sanitari tra gruppi a diverso stato socioeconomico costituiscono uno dei principali problemi della salute pubblica, ma non è noto fino a che punto queste disparità siano modificabili. Poiché gli studi di confronto tra gli stati possono aiutare l'identificazione di possibili interventi, è stato condotto uno studio con l'intento di misurare l'entità di tali disuguaglianze tra 22 stati europei, utilizzando i dati sulla mortalità secondo i livelli di istruzione, l'occupazione e le classi di reddito e le informazioni sull'auto-valutazione dello stato di salute. I tassi di morte e di condizione sanitaria inadeguata erano sostanzialmente più alti nei gruppi con stato socioeconomico più basso; questa evidenza emergeva in tutti i Paesi, ma l'entità delle differenze variavano da nazione a nazione; in particolare si è osservata una situazione più omogenea negli stati dell'Europa meridionale, mentre il divario maggiore è stato rilevato nelle regioni orientali e baltiche.
[SOCIOECONOMIC INEQUALITIES IN HEALTH IN 22 EUROPEAN COUNTRIES. N Engl J Med 2008; 358:2468-81]
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CLASSE SOCIALE, FATTORI DI RISCHIO E INCIDENZA DI MALATTIE CARDIOVASCOLARI

I tassi di morte CV sono calati sin dagli anni '70, anche se più rapidamente nelle classi sociali più ricche, così la differenza relativa tra i ceti più alti e quelli più bassi è man mano aumentata. Questo studio ha indagato la relazione tra la classe sociale e l'incidenza di CVD allo scopo di chiarire quanto questa associazione fosse indipendente dai fattori di rischio CV tradizionali. Lo studio prospettico ha seguito dal 1993-1997 al 2006 una popolazione di 22.478 uomini e donne tra 39 e 79 anni. In entrambi i sessi si osservava una relazione inversa tra la classe sociale e l'incidenza di CVD. L'aggiustamento per fattori di rischio tradizionali (età, fumo, indice di massa corporea, pressione sistolica, colesterolo totale, storia di diabete, attività fisica, consumo di alcol e livelli di vitamina C) aveva poco effetto negli uomini, mentre nelle donne l'associazione veniva attenuata. Lo strato sociale più basso restava un fattore di rischio CV nei soggetti oltre i 65 anni.
[OCCUPATIONAL SOCIAL CLASS, RISK FACTORS AND CARDIOVASCULAR DISEASE INCIDENCE IN MEN AND WOMEN: A PROSPECTIVE STUDY IN THE EUROPEAN PROSPECTIVE INVESTIGATION OF CANCER AND NUTRITION IN NORFOLK (EPIC-NORFOLK) COHORT. Eu J Epidemiol 2008; 23:449-458]
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COMPORTAMENTO DI TIPO A E RISCHIO CORONARICO

La psicosomatica suddivide i comportamenti umani in due gruppi, definiti Tipo A e Tipo B. Gli individui appartenenti al Tipo A sono caratterizzati da aggressività, impazienza e difficoltà al rilassamento e presentano una maggiore probabilità di soffrire di qualche disturbo sia fisico che psichico dovuto alla pressione di eventi stressanti. Essi sembrano essere molto vulnerabili nei confronti delle malattie coronariche (CHD). Coloro che appartengono al Tipo B, invece, manifestano una più elevata capacità di fronteggiare situazioni potenzialmente stressanti, rendendo di conseguenza minore il rischio di ammalarsi. La differenza tra le due tipologie dipende dal modo in cui viene organizzata la risposta a situazioni di stress. Questo studio condotto su 86.361 giapponesi tra i 40 e 69 anni non ha però riscontrato evidenze di un'associazione tra comportamento di Tipo A e sviluppo di malattie coronariche, anzi tra i soggetti maschi il comportamento di Tipo B sembra conferire un maggior rischio di CHD.
[TYPE A BEHAVIOUR AND RISK OF CORONARY HEART DISEASE: THE JPHC STUDY. IJE, pubblicato on line l'1 luglio 2008]
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IL PARADOSSO DIABETE-RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Il diabete è un noto fattore di rischio coronarico ed aumenta la mortalità in seguito ad eventi coronarici acuti. È stato mostrato recentemente che la mortalità per malattie cardiovascolari (CVD) e coronariche (CHD) tra soggetti non diabetici è in continua riduzione, mentre non diminuisce tra i diabetici. Così, l'aumento dell'incidenza di diabete in molte popolazioni può portare ad una stabilizzazione della riduzione della mortalità coronarica. Questo è il "paradosso diabete - rischio cardiovascolare". Scopo dello studio era valutare e confrontare i tassi di eventi coronarici e di mortalità tra diabetici e non diabetici in due coorti (complessivamente, 16.779 uomini e 18.235 donne) arruolate a distanza di 10 anni e seguite per altri 10. Il rischio di eventi CV nelle donne non cambiava tra le due coorti, mentre negli uomini diabetici di tutte le età e in quelli non diabetici tra 25 e 49 anni mostrava un decremento nella coorte più recente. Il rischio di mortalità per CHD era superiore negli uomini diabetici, mentre i tassi di eventi coronarici e di mortalità si riducevano nei non diabetici.
[THE DIABETES-CARDIOVASCULAR RISK PARADOX: RESULTS FROM A FINNISH POPULATION-BASED PROSPECTIVE STUDY. Eur Heart J, pubblicato on line il 16 giugno 2008]
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CONSUMO DI CAFFÈ E MORTALITÀ

Molti studi epidemiologici hanno esaminato il consumo di caffé e il rischio di malattie coronariche o altre patologie croniche, ma i dati relativi alla mortalità specifica o per tutte le cause sono discordanti. Scopo di questo studio era valutare l'associazione tra l'assunzione di caffé e la mortalità per tutte la cause, cardiovascolare e per cancro. Il follow-up prolungato e l'utilizzo di rilevazioni dei consumi e di misurazione dei fattori di rischio ripetute ha permesso di ottenere dati esaustivi sull'effettivo consumo di caffé e di controllare i risultati per potenziali fattori confondenti. Sono stati coinvolti 41.736 uomini e 86.214 donne (Health Professionals Follow-up Study e Nurses' Health Study). I risultati hanno screditato l'ipotesi di un'associazione con i tassi di mortalità in entrambi i sessi; al contrario, è stata osservata una correlazione inversa tra consumo di caffé e mortalità CV e per tutte le cause, che necessita di indagini più approfondite.
[THE RELATIONSHIP OF COFFEE CONSUMPTION WITH MORTALITY. Ann Intern Med 2008; 148:904-14]
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VITAMINA D E RISCHIO DI INFARTO MIOCARDICO E MORTALITÀ CARDIOVASCOLARE E PER TUTTE LE CAUSE

Un nuovo studio suggerisce un legame tra bassi livelli di vitamina D e rischio cardiaco e mostra l'associazione tra deficit di vit. D e mortalità cardiovascolare e per tutte le cause. E' stato stimato che nel 50-60% della popolazione si osservano livelli insufficienti di questa sostanza e ciò è probabilmente correlato a fattori come l'urbanizzazione, i cambiamenti demografici, la riduzione dell'attività all'aperto, l'inquinamento atmosferico. I valori minimi desiderabili di vit. D sono stimati a 20-30 ng/mL e livelli più bassi sono chiaramente correlati alla compromissione della densità minerale ossea, a fratture e, più recentemente, al cancro ed a disordini immunitari, oltre a malattie cardiovascolari, ipertensione e sindrome metabolica. Nello studio caso-controllo condotto su 18.225 uomini dell'Health Professionals Follow-up Study i livelli intermedi (15-30 ng/mL) e bassi (<15 ng/mL) di vit. D erano indipendentemente associati ad un rischio di infarto miocardico 1,5-2 volte maggiore, anche dopo aggiustamento per diversi fattori di rischio e condizioni correlate. Lo studio caso controllo di 3258 pazienti provenienti dalla coorte del LURIC study ha mostrato mostrano che i pazienti nel quartile inferiore di vit. D al basale (mediana 13,3 ng/dL) avevano un rischio significativamente più alto di morte per tutte le cause (HR 1,53; IC al 95% 1,17-2,01) e per cause CV (HR 1,82; 1,29-2,58).
[25-HYDROXYVITAMIN D AND RISK OF MYOCARDIAL INFARCTION IN MEN: A PROSPECTIVE STUDY. Arch Intern Med 2008; 168:1174-80]; INDEPENDENT ASSOCIATION OF LOW SERUM 25-HYDROXYVITAMIN D AND 1,25-DIHYDROXYVITAMIN D LEVELS WITH ALL-CAUSE AND CARDIOVASCULAR MORTALITY. Arch Intern Med 2008; 168:1340-1349]
ABSTRACT 1 E ABSTRACT 2 IN INGLESE


INDICE CAVIGLIA-BRACHIALE E FRAMINGHAM RISK SCORE PER PREDIRE EVENTI E MORTALITÀ CV

La misurazione dell'indice caviglia-brachiale (ankle-brachial index, ABI) può migliorare l'accuratezza della predizione del rischio cardiovascolare con Framingham risk score e il suo utilizzo è favorito dalla semplicità della procedura di rilevazione. E' stata condotta una metanalisi di 16 studi di coorte con base di popolazione in cui l'ABI veniva misurato al basale in 24.955 uomini e 23.339 donne. I risultati hanno mostrato che un ABI uguale o inferiore a 0,90 prediceva l'aumento del rischio di morte CV a dieci anni in entrambi i sessi. Il rischio rimaneva elevato dopo aggiustamento per il Framingham risk score. L'inclusione di ABI nella stratificazione del rischio ottenuta con il Framingham risk score potrebbe portare alla ridefinizione delle categorie di rischio e alla modifica delle raccomandazioni terapeutiche rispettivamente nel 19% e nel 36% degli uomini e delle donne, anche se queste proporzioni possono cambiare considerevolmente con l'età, poiché la prevalenza di un basso ABI si riduce nei soggetti anziani.
[ANKLE BRACHIAL INDEX COMBINED WITH FRAMINGHAM RISK SCORE TO PREDICT CARDIOVASCULAR EVENTS AND MORTALITY. A META-ANALYSIS. JAMA 2008; 300:197-208]
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TERAPIA CON ESTROGENI E USO DELLA LIPOPROTEINA(a) NELLA PREDIZIONE DEL RISCHIO CV

L'utilità della lipoproteina(a) nella predizione del rischio di future patologie cardiache è fortemente attenuata nelle donne in terapia ormonale. Lo studio ha analizzato i dati dal Women's Health Study di 27.736 donne apparentemente sane di almeno 45 anni, seguite per 13 anni di follow-up. 12.075 donne assumevano la terapia ormonale al momento dell'arruolamento. I risultati hanno mostrato che i valori di Lp(a) erano più bassi tra le donne trattate con ormoni. Alti livelli del biomarker erano fortemente correlati al rischio di CVD future solo nelle donne non in terapia ormonale. I ricercatori hanno proposto almeno due spiegazioni: una riguarda l'interazione biologica tra i livelli plasmatici di Lp(a) e l'uso di ormoni, l'altra considera la terapia ormonale come un determinante surrogato di uno stile di vita salutare, che contrasta l'effetto dannoso del biomarker lipidico sulla patologia cardiaca. Nell'editoriale di accompagnamento si sottolinea che, nonostante le caratteristiche che la accomunano al colesterolo LDL, la lipoproteina (a) ha una distribuzione molto più simmetrica e solo una minoranza di soggetti presenta valori correlabili al rischio CV. Questo, oltre alla difficoltà nella standardizzazione delle misurazioni, può rendere problematico il suo utilizzo nella previsione del rischio.
[LIPOPROTEIN(a), HORMONE REPLACEMENT THERAPY, AND RISK OF FUTURE CARDIOVASCULAR EVENTS. J Am Coll Cardiol 2008; 52:124-131]; [ROLE OF LIPOPROTEIN(a) IN CARDIOVASCULAR DISEASE. CURRENT AND FUTURE PERSPECTIVES. J Am Coll Cardiol 2008; 52:132-134]
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CAPACITÀ PREDITTIVA DELLA PROTEINA C-REATTIVA IN PAZIENTI CON SINDROME CORONARICA ACUTA

Un nuovo studio prospettico ha mostrato che la misurazione della proteina C-reattiva (PCR) nei pazienti con sindrome coronarica acuta (ACS) ha un'importanza limitata poiché questo marker non predice il rischio di futuri eventi coronarici in maniera indipendente. La rilevazione della PCR al momento del ricovero, alla dimissione e dopo 30 giorni non è in grado di predire il rischio di morte, infarto miocardico (IM) o angina instabile ad un anno, suggerendo la necessità di trovare altri parametri predittivi nei pazienti con ACS. I ricercatori hanno arruolato 1210 pazienti con diagnosi di IM o angina instabile e hanno misurato i livelli di PCR in tre tempi successivi. Le rilevazioni effettuate all'ammissione e un mese dopo la dimissione avevano una modesta capacità di predire l'occorrenza dell'evento ad un anno che tuttavia si azzerava dopo correzione per altre variabili cliniche.
[CLINICAL UTILITY OF C-REACTIVE PROTEIN MEASURED AT ADMISSION, HOSPITAL DISCHARGE, AND 1 MONTH LATER TO PREDICT OUTCOME IN PATIENTS WITH ACUTE CORONARY DISEASE. THE RISCA (RECURRENCE AND INFLAMMATION IN THE ACUTE CORONARY SYNDROMES) STUDY. J Am Coll Cardiol 2008; 51:2339-46]
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EMOGLOBINA GLICATA E PREDIZIONE DI EVENTI CORONARICI

Una delle variabili usate per calcolare il Framingham risk score è la variabile dicotomica per la presenza di diabete mellito. Questo approccio non tiene conto dell'aumento del rischio associato ad elevati livelli di glucosio al di sotto della soglia diagnostica per il diabete o a quello derivante da una glicemia molto alta nei pazienti diabetici. L'emoglobina glicata (HbA1c) ha mostrato di predire gli eventi CV e la mortalità per tutte le cause indipendentemente dagli altri fattori di rischio sia nei diabetici che nei non diabetici. Sebbene non approvata per la diagnosi di diabete, questo parametro è facilmente misurabile e correlabile con la glicemia. Per valutare se l'aggiunta della misurazione di HbA1c potesse migliorare la predizione del rischio di malattie coronariche, sono stati studiati 10.295 soggetti reclutati nell'European Prospective Investigation of Cancer-Norfolk (EPIC-Norfolk). I risultati hanno mostrato che l'utilizzo di HbA1c in aggiunta al calcolo del Framingham risk score comporta un piccolo ma significativo miglioramento negli uomini, ma non nelle donne, e non determina una più precisa classificazione delle categorie di rischio.
[EVALUATION OF THE FRAMINGHAM RISK SCORE IN THE EUROPEAN PROSPECTIVE INVESTIGATION OF CANCER-NORFOLK COHORT: DOES ADDING GLYCATED HEMOGLOBIN IMPROVE THE PREDICTION OF CORONARY HEART DISEASE EVENTS? Arch Intern Med 2008; 168:1209-16]
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ALTI LIVELLI DI ALBUMINURIA E IPERTENSIONE

Gli individui con alti livelli di escrezione di albumina, pur entro il range considerato normale, hanno un rischio più alto di sviluppare ipertensione; questa evidenza ha portato i ricercatori a suggerire la necessità di una nuova definizione di "normalità" dei valori di albuminuria. In questo studio sono stati analizzati i dati relativi a 2179 pazienti a basso rischio, senza ipertensione al basale e con livelli normali di albumina urinaria (<30 mg/giorno), arruolati nelle due coorti del Nurses' Health Study (NHS). Tra le donne anziane in post-menopausa nel NHS 1, quelle con i livelli più alti di escrezione di albumina avevano il 76% di probabilità in più di sviluppare ipertensione rispetto a quelle con livelli più bassi, mentre tra le donne giovani del NHS 2 la probabilità era più alta del 35%.
[HIGHER LEVELS OF ALBUMINURIA WITHIN THE NORMAL RANGE PREDICT INCIDENT HYPERTENSION. J Am Soc Nephrol 2008]
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COLESTEROLO HDL E CAPACITÀ MNEMONICHE

Un nuovo studio suggerisce che bassi livelli di colesterolo HDL in soggetti di mezza età possano essere associati allo sviluppo di demenza in età avanzata. Il C-HDL è un fattore critico per la maturazione delle sinapsi e per il mantenimento della loro plasticità; può influenzare la formazione di amiloide, il componente delle placche proteiche riscontrate nel cervello dei malati di Alzheimer. In questo studio è stata analizzata la relazione tra livelli lipidici e memoria a breve termine in 3673 partecipanti al Whitehall II study. I risultati hanno mostrato che, rispetto a soggetti con C-HDL >60 mg/dL, quelli con valori <40 mg/dL avevano maggiori probabilità di soffrire di deficit mnemonici; l'associazione era indipendente dalla presenza dell'allele apoE4, un potente fattore di rischio per l'Alzheimer, e non differiva tra uomini e donne. Nell'editoriale di accompagnamento si sottolinea il fatto che, sebbene siano molti gli studi che confermano questa correlazione, nessuno suggerisce un rapporto di causalità, poiché i livelli lipidici plasmatici possono cambiare considerevolmente durante lo sviluppo della demenza e il momento della misurazione è un fattore di importanza critica.
[LOW HDL CHOLESTEROL IS A RISK FACTOR FOR DEFICIT AND DECLINE IN MEMORY IN MIDLIFE. THE WHITEHALL II STUDY. Arterioscler Thromb Vasc Biol, pubblicato on line il 30 giugno 2008]
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AREE VERDI E SALUTE: IL RUOLO DELL'ATTIVITÀ FISICA

Negli ultimi tempi è stata posta una crescente attenzione alla relazione tra spazi verdi nel contesto in cui si vive e il benessere di una persona. Molti studi hanno mostrato che un ambiente più naturale ha un effetto positivo sulla percezione della salute e porta ad una riduzione del rischio di mortalità. Tuttavia, sono scarse le conoscenze sull'entità dell'effetto e sui meccanismi sottostanti. In questo studio è stata indagata l'attività fisica come possibile fattore esplicativo di tale relazione. Sono stati inclusi 4.899 olandesi, dei quali sono stati raccolti dati su attività fisica, percezione dello stato di salute, contesto demografico e socioeconomico. Nono sono state osservate relazioni tra gli spazi verdi e l'aderenza dei soggetti alle raccomandazioni per la promozione dell'attività fisica; i soggetti con a disposizione aree verdi più vaste camminavano e andavano in bicicletta meno di frequente, ma dedicavano più tempo al giardinaggio, anche se questo non spiegava la relazione tra spazi verdi e salute.
[PHYSICAL ACTIVITY AS A POSSIBLE MECHANISM BEHIND THE RELATIONSHIP BETWEEN GREEN SPACE AND HEALTH: A MULTILEVEL ANALYSIS. BMC Public Health 2008; 8:206]
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IL RISCALDAMENTO GLOBALE FA VENIRE I CALCOLI RENALI

Vi è una relazione fra il riscaldamento globale e l'incidenza dei calcoli renali. Lo rivela uno studio pubblicato da Tom Brikowski del dipartimento di Geologia dell'Università del Texas a Dallas, sulla rivista dell'Accademia Americana delle Scienze 'PNAS'. Gli esperti hanno confrontato l'incidenza dei calcoli renali con le temperature medie della zona chiamata in America la 'cintura dei calcoli', ovvero il Sud-Est (Arkansas, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, North Carolina, South Carolina, Tennessee) dove la malattia è molto diffusa, trovando un rapporto tra temperatura ambientale e calcolosi. Poi hanno usato le 'mappe' del riscaldamento globale dovuto ai gas serra, prodotte dall'Intergovernmental Panel on Climate Change nel 2007, ed hanno stimato un considerevole aumento della calcolosi in quelle regioni anche fino al 30% entro il 2050. Ma secondo gli esperti questa situazione è estrapolabile anche al resto del mondo: il punto è che la disidratazione è uno dei principali fattori di rischio dei calcoli e il riscaldamento globale esacerberà questa condizione. Più si riduce il volume delle urine, cosa che si verifica con la disidratazione, più aumenta la formazione di calcoli renali.
[Fonte: SanitaNews.it. 14 luglio 2008]