SELEZIONE DELLA LETTERATURA



PERSISTENZA ALLA TERAPIA CON STATINE E MORTALITÀ PER TUTTE LE CAUSE
Diversi trial randomizzati hanno documentato i benefici delle statine sulla mortalità cardiovascolare in prevenzione secondaria, non ci sono sufficienti evidenze in merito all'effetto sulla mortalità totale in pazienti senza cardiopatia coronarica (CHD). Questo studio di coorte retrospettivo ha valutato l'effetto delle statine nei soggetti in prevenzione primaria e secondaria, arruolando 229.918 pazienti che avevano iniziato un trattamento con statine tra il 1998 e il 2006. Durante un follow-up medio di 4-5 anni si sono verificati 4.259 e 8.906 decessi, rispettivamente, nella coorte in prevenzione primaria e in quella in prevenzione secondaria. In entrambe le coorti la continuità del trattamento con statine (percentuale di giorni coperti, PDC, >=90%) conferiva una riduzione del 45% nella mortalità rispetto ai pazienti con PDC <10%. Una riduzione superiore del rischio è stata calcolata nei pazienti con elevati livelli basali di LDL e in quelli trattati inizialmente con statine ad elevata efficacia.
[CONTINUATION OF STATIN TREATMENT AND ALL-CAUSE MORTALITY. Arch Intern Med 2009; 169:260-268]
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IPOLIPEMIZZANTI E MORTALITÀ IN SOGGETTI PRESUMIBILMENTE SANI
Sono state sollevate perplessità circa l'impatto degli ipolipemizzanti sugli outcome non cardiovascolari poiché alcuni trial sull'efficacia di questi farmaci non hanno mostrato una riduzione della mortalità, nonostante il significativo effetto benefico sul rischio di morte cardiovascolare. Inoltre, i dati pubblicati sul rischio di cancro correlato a queste terapie sono contrastanti. Questo studio ha confrontato la mortalità a 10 anni sulla base del quadro dislipidemico al basale (normolipidemici, dislipidemici non trattati, dislipidemici in terapia con fibrati o con statine) in una coorte di 7722 soggetti trattati con ipolipemizzanti. In 10 anni sono stati registrati 416 decessi (il 53,1% per cancro e il 17,1% per cause cardiovascolari). Dopo aggiustamento per multivariate, gli hazard ratio per la mortalità per tutte le cause erano 0,49 per i soggetti in statine, 0,65 per quelli in fibrati, e 0,76 per i normolipidemici, rispetto ai dislipidemici non trattati. I dati dimostrano che la terapia con statine o con fibrati è associata ad una significativa riduzione della mortalità per tutte le cause.
[TEN-YEAR ALL-CAUSE MORTALITY IN PRESUMABLY HEALTHY SUBJECTS ON LIPID-LOWERING DRUGS (FROM THE PROSPECTIVE EPIDEMIOLOGICAL STUDY OF MYOCARDIAL INFARCTION [PRIME] PROSPECTIVE COHORT). Am J Cardiol 2009; 103:381-6]
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ANTAGONISTI BETA-ADRENERGICI E MORTALITÀ IN SOGGETTI CON INSUFFICIENZA CARDIACA
I farmaci che agiscono sul sistema renina-angiotensina (ACE inibitori/sartani) hanno mostrato effetti favorevoli sulla morbidità e sulla mortalità in pazienti affetti da scompenso e rappresentano la prima scelta terapeutica. I trial clinici randomizzati hanno dimostrato in alcuni casi un effetto benefico anche per i ß-bloccanti, in altri hanno fatto ipotizzare un effetto di classe negativo. Il presente studio di coorte è stato realizzato in 11.326 adulti sopravvissuti dopo ospedalizzazione per scompenso cardiaco tra il 2001 ed il 2003, utilizzando i dati delle prescrizioni di ß-bloccanti nei 12 mesi precedenti l'ospedalizzazione e nei 12 mesi successivi. I risultati hanno mostrato che il tasso di mortalità durante 12 mesi di follow-up variava in base all'esposizione ed al tipo di ß-bloccante (atenololo 20,1/100 anni persona; metoprololo tartrato 22.8/100 anni persona; carvedilolo 17,7/100 anni persona; altri ß-bloccanti 21,9/100 anni persona; nessun trattamento 37,0/100 anni persona). Il rischio aggiustato di morte è risultato pari a 1,16 (IC 95% 1,01-1,34) per il metoprololo ed a 1,63 (1,44-1,84) per chi non assume ß-bloccanti, se confrontato con l'atenololo. Rispetto all'atenololo, non si sono osservate differenze significative di rischio per il carvedilolo (HR 1,16; 0,92-1,44) anche dopo aver aggiustato per i vari fattori di confondimento.
[COMPARATIVE EFFECTIVENESS OF DIFFERENT BETA-ADRENERGIC ANTAGONISTS ON MORTALITY AMONG ADULTS WITH HEART FAILURE IN CLINICAL PRACTICE. Arch Intern Med 2008; 168: 2415-21]
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INQUINAMENTO ATMOSFERICO E ASPETTATIVA DI VITA NEGLI STATI UNITI
L'inquinamento atmosferico cittadino può ridurre del 15 per cento le aspettative di vita. I risultati di questo studio indicano che una riduzione di 10 microgrammi per metro cubo di particolato incrementerebbe le aspettative di vita di circa sette mesi; questo miglioramento era ampiamente indipendente dalla variabilità di fattori demografici, socio-economici o correlati al fumo. Per analizzare l'impatto dello smog sull'aspettativa di vita sono stati studiati i dati di 51 città statunitensi tra il 1980 e il 2000; la ricerca si è concentrata in particolar modo sul PM 2.5, prodotto prevalentemente dal traffico automobilistico. Dall'analisi è emerso che al diminuire dei livelli di particolato aumentava la durata della vita media dei cittadini. Il legame tra inquinamento e aspettative di vita è risultato più marcato in quelle città dove si è riusciti ad ottenere un abbassamento considerevole dello smog.
[FINE-PARTICULATE AIR POLLUTION AND LIFE EXPECTANCY IN THE UNITED STATES. N Engl J Med 2009; 360:376-386]
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RIDUZIONE DELLA GRAVITÀ DEGLI INFARTI MIOCARDICI, 1987-2002
La gravità degli infarti miocardici è notevolmente diminuita negli Stati Uniti negli ultimi 15 anni, come mostra una nuova analisi dallo studio ARIC. Questa evidenza, probabile conseguenza di un miglior controllo di fattori di rischio come la pressione arteriosa e il colesterolo, ha verosimilmente contribuito alla riduzione dei tassi di morte per CHD. Questa nuova indagine estende precedenti risultati dall'ARIC nel periodo 1987-1994, avendo osservato 10.285 pazienti tra 35 e 74 anni, dimessi dall'ospedale con diagnosi di certo o probabile primo attacco cardiaco tra il 1987 e il 2002. La classificazione dell'infarto miocardico è stata effettuata seguendo un algoritmo basato su dolore al petto, caratteristiche dell'ECG e biomarker cardiaci. Il numero di casi con anormalità dell'ECG si riduceva dell'1,9%/anno (p=0,002) per quanto riguarda l'iniziale elevazione del segmento ST, del 3,9% (p<0,001) in caso di conseguenti onde Q e del 4,5% (p<0,001) in caso di onde Q maggiori. Anche i valori massimi di creatina chinasi e di creatina chinasi MB diminuivano (del 5,2% e del 7,6%; p<0,001 e p<0,001 per anno, rispettivamente), sebbene nengli anni successivi i valori massimi di troponina I rimanessero stabili.
[DECLINING SEVERITY OF MYOCARDIAL INFARCTION FROM 1987 TO 2002. THE ATHEROSCLEROSIS RISK IN COMMUNITIES (ARIC) STUDY. Circulation, pubblicato on line il 19 gennaio 2009]
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VARIAZIONE CROMOSOMICA DI 9P21.3 E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
I risultati di un ampio studio prospettico su donne bianche ha mostrato che la valutazione del rischio cardiovascolare in base alla variante genotipica 9p21.3, associata allo sviluppo di patologie copronariche, non aumenta il potere predittivo dei tradizionali fattori di rischio. Sono state studiate 22129 donne partecipanti al Women's Genome Health Study, inizialmente senza evidenza di malattie croniche. E' stata effettuata la genotipizzazione per il polimorfismo rs10757274 su 9p21.3 e la misurazione dei tradizionali fattori di rischio, quali pressione arteriosa, diabete, fumo, livelli plasmatici, storia familiare di infarto miocardico prematuro. L'analisi ha mostrato un'associazione significativa tra i genotipi AG e GG e il rischio di CVD incidenti (hazard ratios 1,32-1,63, rispetto al genotipo AA). Tuttavia, l'aggiunta del genotipo al tradizionale modello predittivo comportava uno scarso miglioramento.
[CARDIOVASCULAR DISEASE RISK PREDICTION WITH AND WITHOUT KNOWLEDGE OF GENETIC VARIATION AT CHROMOSOME 9P21.3. Ann Intern Med 2009; 150: 65-72]
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A CONFRONTO LE PROGNOSI DI DIABETE MELLITO DI TIPO 2 E DI MALATTIE CARDIOVASCOLARI
Il razionale di questo studio era rappresentato dalla necessità di maggiori informazioni circa la prognosi cardiovascolare di uomini diabetici in relazione a soggetti con CVD. I ricercatori hanno ipotizzato che la prognosi avversa associata alla diagnosi di diabete sia simile a quella associata alla diagnosi di patologie cardiovascolari sul lungo termine, ma abbastanza differente se valutata sul breve termine. La popolazione in studio era composta da 4376 canadesi di 35-64 anni senza CVD nel 1974 e seguiti fino al 1998. Durante il periodo di osservazione sono stati documentati 137 nuovi casi di diabete in soggetti senza CVD e 527 CVD in soggetti non diabetici. Questi casi, appaiati per età ad altrettanti controlli, mostravano una più alta mortalità cardiovascolare (rischio relativo aggiustato per età 3,11; IC al 95% 1,96-4,92 per i diabetici e 4,46; 3,15-6,30 per quelli con CVD). Tuttavia, nei primi 5 anni dopo la diagnosi, gli uomini con CVD avevano una mortalità cardiovascolare maggiore a quella dei pazienti diabetici (RR 2,03; 1,01-4,08).
[COMPARISON OF PROGNOSIS FOR MEN WITH TYPE 2 DIABETES MELLITUS AND MEN WITH CARDIOVASCULAR DISEASE. CMAJ 2009; 180:40-7]
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DIABETE E RISCHIO DI DEMENZA
Uno studio con base di popolazione effettuato su 13.693 gemelli ha mostrato che il diabete aumenta il rischio di demenze, specie se lo sviluppo della patologia avviene in mezza età: l'analisi ha rivelato cha la comparsa di diabete prima dei 65 anni è associato ad un aumento del rischio di morbo di Alzheime del 125%. Le osservazioni effettuate sui gemelli consentono di verificare l'associazione già ipotizzata tra diabete e demenze e valutare l'influenza di fattori genetici e ambientali. Nel campione sono stati riscontrati 467 casi di demenze (292 con morbo di Alzheimer, 105 con demenza vascolare e 70 con altri tipi) e 120 casi di diagnosi dubbia. Il diabete di tipo 2, riscontrato in 1396 soggetti, era associato ad un moderato aumento del rischio di demenza (odds ratio 2,17; IC al 95% 1,36-3,47). Questi risultati sottolineano l'importanza di esercizio fisico, dieta, astensione dal fumo e controllo glicemico nei diabetici in termini di rischio di demenze.
[MID- AND LATE-LIFE DIABETES IN RELATION TO THE RISK OF DEMENTIA: A POPULATION-BASED TWIN STUDY. Diabetes 2009; 58:71-7]
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SINDROME METABOLICA E MORTALITÀ CARDIOVASCOLARE NELLA POPOLAZIONE ITALIANA ANZIANA
Gli effetti della sindrome metabolica (SM) negli anziani rappresentano un problema clinico cruciale a causa della crescita della popolazione anziana in tutto il mondo e dell'aumento della prevalenza di SM con l'età. Questo studio ha indagato l'associazione tra SM, complessivamente o per i singoli determinanti, e mortalità cardiovascolare e per tutte le cause in una popolazione italiana di 2910 soggetti con più di 65 anni (Progetto Veneto Anziani, Pro.V.A.) seguita mediamente per 4,4 anni. La SM (diagnosticata secondo i criteri NCEPT III) era significativamente associata ad aumento della mortalità per tutte le cause in tutti i soggetti (hazard ratio 1,41), negli uomini (1,42) e nelle donne (1,47). Dopo aggiustamento per multivariate, SM era anche associata ad una umento della mortalità CV in tutti i soggetti (1,60), negli uomini (1,66) e nelle donne (1,60). L'elevata glicemia in tutti i soggetti e nelle donne e bassi livelli di HDL nelle donne erano predittori indipendenti di mortalità per tutte le cause e cardiovascolare.
[METABOLIC SYNDROME AND ALL-CAUSE AND CARDIOVASCULAR MORTALITY IN AN ITALIAN ELDERLY POPULATION: THE PROGETTO VENETO ANZIANI (PRO.V.A.) STUDY. Diabetes Care 2009; 32:153-9]
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INDICE DI MASSA CORPOREA E MORTALITÀ
E' ancora acceso il dibattito circa il ruolo dell'indice di massa corporea (IMC) come fattore di rischio di mortalità per tutte le cause. Questo studio ha indagato tale associazione in una corte austriaca di 184.697 uiomini e donne seguiti mediamente per 15,1 anni. Durante il follow-up sono state registrate 15.557 morti (6077 per cause CV, 4443 per cancro e 606 per patologie respiratorie). L'IMC mostrava un'associazione a U con la mortalità per tutte le cause. Rispetto alla categoria di riferimento (IMC 22,5-24,9 kg/m²) si osservava un maggior rischio sia nella classe di IMC più alta (>=35 kg/m2) con hazard ratio (HR) di 2,13 negli uomini e di 1,60 nelle donne, sia in quella più bassa (<18,5 kg/m²), con HR di 2,57 negli uomini e di 1,40 nelle donne. Un andamento silime è stato riscontrato per i non fumatori. L'aumento della mortalità con l'IMC dipende essenzialmente dai decessi per cause CV, in minor misura dai casi di cancro.
[BODY MASS INDEX AND MORTALITY: RESULTS OF A COHORT OF 184,697 ADULTS IN AUSTRIA. Eur J Epidemiol 2009; 24:83-91]
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CONSUMO DI CAFFÈ E RISCHIO DI ICTUS NELLE DONNE
Una nuova analisi dal Nurses' Health Study mostra che il consumo a lungo termine di caffè (fino a quattro tazzine al giorno) non è associato all'aumento del rischio di ictus, anzi sembra essere protettivo nell donne non fumatrici. Tra le fumatrici non sembra esserci effetto del consumo di caffè, ne positivo né negativo, sul rischio di ictus. Non sono state osservate associazioni con altre bevande a base di caffeina, mentre il caffè decaffeinato mostrerebbe un effetto protettivo. In questo studio sono state analizzate 83.076 donne senza storia di ictus, coronaropatie, diabete o cancro al basale; il consumo di caffè è stato rilevato periodicamente durante tutto il follow-up (24 anni). In questo periodo si sono verificati 2280 ictus; dopo aggiustamento per fattori come età, fumo, indice di massa corporea, attività fisica, consumo di alcolici, menopausa, terapia ormonale, uso di aspirina e fattori dietetici, non è stato osservato un aumento del rischio di ictus associato al consumo di caffè, mentre ne è stato evidenziato l'effetto protettivo, per 4 tazzine al giorno (rischio relativo 0,80; IC al 95% 0,64-0,98).
[COFFEE CONSUMPTION AND RISK OF STROKE IN WOMEN. Circulation, pubblicato on line il 16 febbraio 2009]
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