STATINE, RISCHI E SOGLIE DI RISCHIO


DOMANDE E RISPOSTE APERTE …FRA MEDICI DI MEDICINA GENERALE
Giustini S, Battaggia A
Fonte: farmacovigilanza.org



I medici di medicina generale sono i principali attori della prevenzione cardiovascolare, che si basa sulla preliminare valutazione del rischio globale individuale e sull'impostazione di strategie personalizzate. In questo articolo viene riportato un interessante "colloquio" su uso di statine e prevenzione del rischio cardiovascolare.


DOMANDA
Spostare la soglia dell'intervento farmacologico in prevenzione primaria significa modificare in modo sensibile la proporzione di soggetti da esporre cronicamente ad una statina. Qual è il limite tra prevenzione primaria e secondaria? Un tempo tale limite era facilmente determinato dalla presenza o assenza degli eventi cardiovascolari maggiori (infarto, ictus, claudicatio) e la maggior parte dei trials fa riferimento a questo principio. Oggi, però, la diagnostica strumentale dà la possibilità di osservare il continuum delle alterazioni morfologiche e funzionali che dall'ispessimento intimale portano alla ostruzione vasale e all'evento ischemico acuto. A quale dei seguenti livelli si pone il limite tra prevenzione cardiovascolare primaria e secondaria?

1. Evento ischemico acuto (ictus, infarto, angina, claudicatio).
2. Stenosi arteriosa emodinamicamente significativa
3. Alterazione del rapporto pressorio caviglia/braccio
4. Presenza di placche
5. Presenza di ispessimento medio-intimale

RISPOSTA
I punti 1 e 2 sono esiti clinici o outcome "forti" mentre i punti 4 e 5 rappresentano outcome secondari o surrogati. Si dovrebbe sempre scegliere il farmaco più efficace desunto da trials con "outcome forti" e "trasferibili" nella pratica della medicina generale. Oggi il problema della trasferibilità dei risultati della ricerca riguarda il trasferire le evidenze degli studi clinici randomizzati e controllati al comportamento clinico quotidiano.
Vanno tenuti presenti:

  • Criteri di arruolamento (i miei pazienti sono uguali? Sono diversi?)
  • Compliance (la aderenza dei miei pazienti alle terapie prescritte è inferiore a quella dei pazienti arruolati negli studi clinici?)
  • Contesto dello studio (Studio effettuato in centri di secondo livello: Follow-up e accertamenti più intensi rispetto a quelli che posso attuare nella mia pratica quotidiana)
  • Caratteristiche degli interventi (quale intervento nel gruppo di controllo? Placebo? Terapia usuale? Farmaco di riferimento?), la valutazione dei risultati e del rapporto rischio/beneficio

La difficoltà consiste nello scegliere farmaci efficaci e assicurarsi che il vantaggio messo in evidenza dalla sperimentazione si verifichi ancora quando il farmaco è usato nella pratica clinica. Infatti, perché un farmaco efficace sia vantaggioso per il malato occorre che sia impiegato nelle malattie e nelle condizioni studiate nel corso degli studi che ne hanno dimostrato l'efficacia.
Perché usare le statine nei pazienti a maggior rischio?
Il rischio di effetti indesiderati indotto da un trattamento è costante in una certa popolazione. Se noi trattiamo con quel farmaco i pazienti a cui è indicato, avremo rilevanti vantaggi che controbilanceranno l'incidenza di eventi indesiderati. S
e invece verrà prescritto a chi ne trarrà poco beneficio, si ottiene, di fatto, un bilanciamento degli effetti indesiderati con quelli terapeutici.
Quindi le statine vanno assolutamente prescritte ai pazienti a maggior rischio di incorrere in eventi cardiovascolari e che quindi trarranno mediamente maggiori vantaggi dal trattamento a lungo termine.

DOMANDA
Se un paziente valutato con le carte del rischio e classificato come a rischio medio-basso esegue una ecografia della tiroide che documenta la presenza di placche sulla carotide, rimane un soggetto in prevenzione primaria?
Nel WOSCOPS sono definiti in prevenzione primaria i pazienti "who had no history of myocardial infarction". Nello studio ASCOT sono esclusi i pazienti con "previous myocardial infarction, currently treated angina, recent cerebrovascular event". Nelle linee guida dell'ATPIII non si parla esplicitamente di prevenzione "primaria" e "secondaria" ma sono considerati equivalenti di CHD i pazienti con "clinical manifestations of noncoronary forms of atherosclerotic disease (peripheral arterial disease, abdominal aortic aneurysm, and carotid artery disease [transient ischemic attacks or stroke of carotid origin or >50% obstruction of a carotid artery]), diabetes, and 2 + risk factors with 10-year risk for hard CHD >20%".
Se dobbiamo fare riferimento ai trials "classici" il paziente rimane in prevenzione primaria, se facciamo riferimento all'ATPIII lo consideriamo in prevenzione secondaria se la stenosi carotidea è sintomatica o superiore al 50%. Se invece considerare in prevenzione primaria solo i soggetti "sani" ovvero senza evidenza di patologie vascolari occlusive, ciò implica che, prima di negare una statina, dobbiamo aver esplorato ecograficamente tutto l'albero arterioso del paziente.

RISPOSTA
Una Intelligence BM ricorda che i pazienti vanno curati in tutta la loro complessità, e non solo uno stroke, una dissezione o una trombosi venosa profonda. L'obiettivo è ridare benessere, se possibile, ad una persona, e non curare un esame di laboratorio e un'indagine di diagnostica strumentale. Forse più che porre dei cut off scarsamente raggiungibili, con uno spreco di risorse ingente, andrebbe compiuto uno sforzo congiunto della medicina generale per stabilire caso per caso "gli elegibili al trattamento" e la dose migliore, personalizzandola.
Possiamo mettere in atto tre possibili strategie (Therapeutics Letter n. 49):

1. trasferire nella pratica la dose sperimentata nei vari studi clinici, se il nostro paziente è simile ai pazienti arruolati;
2. utilizzare la dose necessaria per ottenere una diminuzione della colesterolemia attorno al 25 - 30%, che è la riduzione media ottenuta negli studi randomizzati e controllati;
3. impiegare la dose necessaria per raggiungere il target di LDL consigliato dalle linee guida.

Ogni opzione ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. La prima ha il vantaggio di non richiedere un controllo ripetuto dei valori LDL ma potrebbe essere inadeguato a raggiungere il target raccomandato; la terza alternativa ha il vantaggio , forse, di pervenire al target terapeutico, ma necessita un controllo frequente della colesterolemia e spesso dosaggi elevati di farmaco che aumentano il rischio di effetti collaterali; dipende poi dall'abbassamento delle soglie raccomandate che tendono a cambiare con estrema rapidità, su presunte azioni "ancillari" delle diverse molecole.


Come agire sui fattori di rischio cardiovascolare?

Le strategie rivolte alla correzione dei fattori di rischio per una malattia all'interno di una popolazione sono fondamentalmente tre:

  • Strategie rivolte a tutta la popolazione (indipendentemente dall'esposizione individuale a fattori di rischio)
  • Strategie rivolte a soggetti caratterizzati da alti livelli di un singolo fattore di rischio
  • Strategie rivolte a soggetti caratterizzati da alti livelli di rischio complessivo.

La strategia preventiva "High-Baseline Risk based" nel modello illustrato da Manuel e coll ha dimostrato di essere notevolmente più efficace della strategia "Single Risk Factor Based", con 290 vs 125 morti evitate ogni 100.000 soggetti sottoposti all'intervento.
I vantaggi di una prevenzione "High-Baseline Risk based" sono convalidati dalla sicurezza che i pazienti trattati apparterranno nel 100% dei casi allo strato di rischio cardiovascolare più pericoloso e dalla necessità di dover sottoporre a screening un numero di soggetti infinitamente più basso rispetto a quello richiesto dall' opzione "Population based". Non vi è motivo di credere che i problemi di implementazione collegati alla strategia "High-Baseline Risk based" possano essere significativamente diversi da quelli associati ad una strategia "Single Risk Factor Based".
In base a queste considerazioni la strategia "High-Baseline Risk based" rappresenta l'opzione preventiva più conveniente per il setting delle cure primarie. Una metanalisi di trial sulle statine in prevenzione primaria mette in discussione alcune raccomandazioni delle linee guida sull'utilizzo generalizzato di questi farmaci in determinate categorie di soggetti. A supporto di queste indicazioni per la terapia con statine nella prevenzione primaria delle CHD in donne e popolazione con età >=65 anni, le linee guida citano rispettivamente 7 e 9 trial randomizzati. Negli adulti (30-80 anni) che hanno già malattie vascolari occlusive, la terapia con statine conferisce benefici sulla mortalità totale e cardiovascolare senza disaccordo.
Il dibattito invece coinvolge questa domanda: quali persone, senza evidenza di patologie vascolari occlusive (ossia in reale prevenzione primaria) dovrebbero assumere statine?
Sono stati raccolti i dati di tutti gli 8 trial randomizzati che confrontavano le statine a placebo in soggetti in prevenzione primaria a rischio aumentato. Sono stati utilizzati come end point primari per stimare il beneficio complessivo la mortalità totale e gli eventi avversi gravi. La mortalità totale non è stata ridotta dalle statine (rischio relativo 0,95; IC 95% 0,89-1,01). Nei due trial che riportavano gli eventi avversi gravi, tali eventi non erano ridotti dalle statine (21,01; 0,97-1,05). La frequenza degli eventi cardiovascolari, un end point secondario, era diminuita dalle statine (0,82; 0,77-0,87). Tuttavia, la riduzione del rischio assoluto dell'1,5% era piccola e comportava che 67 persone erano state trattate per 5 anni per prevenire un simile evento. Le statine inoltre non riducono gli eventi CHD totali nelle 10.990 donne osservate in questi trial di prevenzione primaria (0,98; 0,85-1,12). Gli autori concludono sostenendo che le statine non dovrebbero essere prescritte per la prevenzione primaria nelle donne di qualsiasi età o negli uomini sopra ai 69 anni. Perchè vi è disaccordo? Le linee guida attuali si basano sull'assunzione che il rischio cardiovascolare sia un continuum e che le evidenze dei benefici osservati in prevenzione secondaria possano essere estrapolati alla popolazione in prevenzione primaria. Questa assunzione, aggiunta alla sicurezza delle predizione accurata del rischio cardiovascolare fa sì che le statine vengano raccomandate ad una sostanziale proporzione di individui "sani".


Rischio e beneficio: anche un problema di comunicazione/relazione
Dagli anni '90 è stato introdotto in medicina il concetto di rischio ovvero il convincimento che si possa intervenire su persone in buona salute, sottoponendole a controlli periodici e a cure. Controlli e a terapie farmacologiche che hanno la possibilità probabilistica di produrre reali vantaggi solo in alcuni di coloro che vi si sottopongono. Non potendo classificare tutto come malattia, in assenza di sintomi, è stato creato il concetto di fattori di rischio: da cui derivano i concetti di rischio e di beneficio. Il concetto di rapporto "rischio/beneficio" è fuorviante perché, spesso, beneficio e rischio non sono della stessa natura e non si possono realmente "soppesare"; in quanto il beneficio è un "fatto" reale, che avviene sempre e comunque, mentre il rischio è inteso come espressione di una "probabilità" più o meno alta che qualcosa di "dannoso" ci possa accadere. L'asimmetria è evidente. Il beneficio dovrebbe essere allora posto a confronto con il danno e la probabilità del beneficio con la probabilità del danno (rischio). Sostenere che una certa terapia ha il 95% di probabilità di successo o il 5% di probabilità di insuccesso, esprime lo stesso concetto, ma viene recepita dal paziente in modo opposto. Se, ad esempio, un farmaco riduce il rischio di infarto dell'8%, equivale ad identificare una riduzione del rischio relativo di 0.08 del rischio basale di infarto. Ciò significa che, se la malattia ha una incidenza , poniamo del 10% all'anno, non assumendo "nulla" la probabilità di contrarla sarà, appunto, 10%. Se "il farmaco riduce dell'8% quella probabilità vuol dire che dopo il trattamento essa scenderà al 92% di quello che era prima, in pratica al 9.2%. La differenza in rischio assoluto è allora uguale a 0.008. Quindi si tratta di dire al paziente: "caro amico, senza prendere il farmaco hai un rischio del 10%; prendendo il farmaco hai un rischio del 9.2%. Io però non posso predire se la malattia l'avrai o non l'avrai: posso solo dirti che il rischio di averla è più basso di quasi un punto percentuale". In altri termini (utilizzando il NNT) al paziente posso dire: "Se do il farmaco a 125 persone come te: una avrà un vantaggio, le altre 124 no! Ed io non so in quale gruppo tu sia"


Cosa stiamo facendo?
Una prima informazione la troviamo nella pubblicazione "L'uso dei farmaci in Italia - Rapporto nazionale anno 2005 OSMED", in modo particolare sui dati di prescrizione dei farmaci nell'ambito "Prevenzione primaria e secondaria del rischio cardiovascolare della Medicina Generale (tabella n. 2 e n. 3). L'analisi è stata condotta selezionando tutti i soggetti con le seguenti condizioni patologiche diagnostiche dai Medici di Medicina Generale (fonte Health Search DBase) entro la fine del 2004:

  • ipertensione arteriosa (esclusi i pazienti con diagnosi concomitante di diabete e di eventi CV maggiori
  • ipertensione più diabete mellito, con o senza eventi CV maggiori
  • patologie ischemiche cardiache e/o angina
  • ictus e/o TIA

A tali soggetti sono state associate tutte le prescrizioni di antipertensivi, antiaggreganti piastrinici e ipolipemizzanti effettuate dai MMG nel corso del 2005.
L'OSMED evidenzia che a fronte di forti raccomandazioni di Linee Guida sul trattamento con statine in prevenzione secondaria e della indicazione all'utilizzo consentito dalla nota AIFA 13, meno del 50% dei pazienti con cardiopatia ischemica (IMA e/o angina) riceve un trattamento adeguato e continuativo nel tempo.
Uno studio sulla prescrizione in medicina generale delle statine realizzato nel 2003 in Umbria ha mostrato importanti problemi di compliance nell'uso di questi farmaci. Infatti, la durata della terapia rilevata da Abraha (mediana di trattamento 5,3 mesi per paziente; numero di pazienti osservati 39.222; periodo di osservazione: 1997-2001) è totalmente discorde con le linee guida internazionali sulla prescrizione delle statine le quali, com'è noto, raccomandano una durata di trattamento di almeno 3 anni oppure 5 anni . Da una elaborazione più analitica di questi stessi dati, eseguita successivamente in sede CUF , è emerso che il 20% dei pazienti cessava la terapia dopo 2 mesi e che l'80% cessava dopo 2 anni. A fronte di questo dato preoccupante rilevato in Umbria e recentemente confermato nella Regione Toscana , i dati provenienti da altri paesi europei (anche se scarsi) mostrano un uso delle statine più appropriato .
Perché e così difficile mantenere un paziente in terapia con statine continuativamente per 3-5 anni? In realtà non lo sappiamo.
Un'ipotesi, "troppi pazienti iniziano", è che gli "inizi" del trattamento sono inappropriati unicamente perché coinvolgono pazienti che non sono candidati adatti per la terapia; in questo contesto, i pazienti che poi proseguono il trattamento a lungo potrebbero essere soltanto quelli che effettivamente ne beneficiano. Un'altra ipotesi, "troppi pazienti cessano", è invece quella per cui gli "inizi" di terapia sono corretti (poiché riguardano pazienti che sono reali candidati a trarre beneficio) e quindi l'errore consiste in una frequenza troppo elevata delle successive interruzioni di trattamento, per "concordance" inadeguata o per la comparsa di reazioni avverse (e in Italia esiste una forte sottosegnalazione). E' probabile che nel lungo periodo, nella medicina generale, non nell'ambiente ideale di uno studio randomizzato e controllato, in pazienti complessi e sottoposti a politerapia, anche reazione avverse attese o banali siano invece tali da far interrompere la terapia al paziente. Le conseguenze economiche di questo uso "sporadico" toglie risorse che potrebbero essere destinate, con maggior successo, ad altri interventi sanitari caratterizzati da minori incertezze in termini sia di efficacia che di compliance. Un altro elemento di prescrizione potenzialmente non adeguata, che è emerso da dati pubblicati in letteratura, è rappresentato dall'incerta efficacia che le statine dimostrano nelle donne. Infatti, mentre negli uomini i dati sull'efficacia delle statine sono solidi, sia per quanto riguarda la prevenzione primaria degli eventi cardiovascolari, sia per quanto riguarda la prevenzione secondaria, le evidenze a proposito delle donne sono oggetto di controversia.


NOTA 13 AIFA gennaio 2007... "IPERCOLESTEROLEMIA"
La scelta se iniziare o meno una terapia con statine, basata sul riscontro dell'insuccesso del trattamento dietetico, deve essere formulata su un progetto terapeutico condiviso dal paziente. Le statine devono/dovrebbero essere farmaci prescritti con l'intento preciso di ridurre il rischio di eventi fatali e non fatali riferibili a malattia cardiovascolare maggiore (in particolare infarto del miocardio, morte coronarica, morte improvvisa, ictus e interventi di rivascolarizzazione). La probabilità che ogni persona ha di sviluppare la malattia dipende dalla combinazione dei loro livelli rischio; occorre quindi molta attenzione all'eventuale combinazione di più fattori di rischio più che alla soglia di rischio di singolo.


Riflessioni conclusive
I medici di medicina generale sono i principali attori della prevenzione cardiovascolare, che si basa sulla preliminare valutazione del rischio globale individuale e sull'impostazione di strategie personalizzate. La tendenza alla medicalizzazione crescente della società si manifesta soprattutto attraverso i processi di anticipazione della diagnosi e di abbassamento della soglia di malattia, con una profonda trasformazione, sul piano sociale e culturale, nel rapporto tra medici e pazienti.
Ha reale significato su end point "forti" continuare ad abbassare le soglie di "normalità" della colesterolemia totale ed LDL (includendo in tale modo nei "non sani", una gran parte della popolazione)? Abbiamo inoltre delle informazioni che i precedenti target sono stati raggiunti, con benefici, in termini di riduzione significativa di eventi cardiovascolari maggiori? Ha senso aumentare "la percentuale degli utilizzatori statine" in prevenzione primaria? Abbiamo informazioni sulla compliance di questi "trattati"? Le ultime linee guida europee per la prevenzione delle malattie cardiovascolari, risalenti al 2003, suggeriscono che un valore di pressione sanguigna di 140/90 mm Hg, senza correzioni legate all'età, e di colesterolo nel siero di 194 mg/dL siano le giuste soglie per essere considerati a rischio di malattia. Ciò significa in definitiva che il 90% delle persone sopra i 50 anni dovrebbero essere trattare come "non sani" o probabili malati.